TRA LE STATALI, I CAMPI di Alessandro Friend Fravili
Scritto da Alessandro Fravili
TRA LE STATALI, I CAMPI – un diario personale tra design ed esperienze
Immagine presa dalla rete |
Continuando a giocare,
riflettere sulle esperienze e confrontare le mie idee con quelle di
altri amici e membri della community vado, naturalmente, a definire e
mettere sempre più a fuoco le mie idee di appassionato anche per
quanto riguarda il game design. Anche per questo, nel momento in cui
ho letto alcuni commenti e discussioni, ho sentito di avere un
contenuto da trasmettere, affinché faccia da confronto.
Potrebbe essere uno spunto
ulteriore, come potrebbero esserci persone che la pensano in maniera
simile e non ne hanno ancora avuto conferma, o
persino chi non si è ancora accorto del proprio pensiero sul tema.
In ogni caso, ho sentito che tirar fuori
questi contenuti fosse utile per me a fissare, e potrebbe essere di
arricchimento a chi legge.
Mi dilungherò un po’,
laddove sia il caso. Abbiate la pazienza di accogliere il fatto che
questo non è un pezzo acchiappa view, ma una pagina di diario della
mia esperienza.
Come tutti anche io entro
in questo vastissimo mondo del gioco, del design, e mi trovo come un
neoabbonato a Netflix; ho tutto il mondo davanti: da dove cominciare?
Dapprima una fase più intensiva di esplorazione di un solo settore
(prevalentemente eurogame), ma sempre con l’occhio anche ad altro:
gli astratti strategici, i grandi classici del cooperativo e altre
idee ispiranti per me. Poi piano piano inizio a sperimentare e
affacciarmi su altre strade, alcune che non fanno affatto al caso
mio, altre che diventano piccole rivoluzioni. Ed è di questo che
voglio raccontare uno spaccato; le piccole o forse grandi
rivoluzioni.
In ogni settore artistico,
espressivo, tecnico o anche professionale si consolidano dei filoni,
aumentano perizia, padronanza ed analisi, finché ogni tanto non
arriva qualcuno che, contaminando più elementi del proprio bagaglio
culturale, crea un qualcosa che è veramente da outsider. E che
INNOVA.
Avete presente? Siete dei
curatori di prati inglesi, ficcanasate in tutti i prati inglesi del
circondario eppure non riuscite ancora a trovare quel qualcosa di
rottura, di impatto, che vi colpisce e vi fa dire “Ecco!“ E
probabilmente questo quid in più lo trovate all’orto botanico tra
gli ambienti pluviali o acquatici. Ne riportate qualcosa nel vostro
prato inglese e mettete insieme un qualcosa che lascia
il segno.
Per me è stato così (e
continuerà ad esserlo probabilmente) con il game design. Ora di idee
di rottura ce ne sono state mica poche negli ultimi anni, anche a
guardare le classifiche: Pandemic Legacy e Gloomhaven che come veri
outsider hanno fatto terra bruciata nelle classifiche, ma anche il
vestire gli astratti del loro contrario, tra colore e giocattolosità
in Santorini e Azul, o il gestionale impegnativo innervato di tema e
coerenza, tra Lacerda e Terraforming Mars (non
parliamo quindi dell’underdoggino sconosciuto ai più ma di
successi conclamati), le escape room da
tavolo.
Voglio spingermi però
ancora più oltre: chi se ne frega delle classifiche per quanto
riguarda l’impatto emotivo, personale e
culturale (in ambito ludico) che hanno avuto
altri titoli su di me e le mie idee. L’innovazione non sempre si
può forzare, arriva solo ogni tanto attraverso le idee e non sempre
sforna il nuovo numero 1 o successo planetario. Ma fa da
fertilizzante alle discussioni e alle idee future, lascia una eredità
(vera e senza strappare carte :-P ) a ciò che viene dopo.
E ora arrivo al punto
concreto: ci sono stati dei titoli che mi
hanno spaccato il cervello, mi ci hanno messo dentro della roba e me
lo hanno richiuso. Da quel momento non
mi è stato più possibile non vedere che c’è altro. Tra una
strada statale, che ci porta lungo una
direzione ben definita, e un’altra ci sono
innumerevoli campi. Terreno ancora da plasmare, da valorizzare e
spazio per proporre.
Sono piuttosto sicuro che
questa sensazione sia stata provata da tutti voi, attraverso libri,
film, musica. E’ il confronto con le grandi idee ed è qualcosa che
riguarda la vita, non il solo ambito del game design.
La condivisione che mi
sento di lanciare dunque è un incoraggiamento ad affacciarsi,
annusare le idee che grazie alla vostra consapevolezza sentite avere
ciccia. Per “affacciarvi” leggete
cosa esce, provatelo nei negozi/circoli, pledgiatelo, fatevelo
prestare, attenzionatelo per mesi per provarlo alla prima occasione,
in base alle circostanze. Ma seguite le idee,
non le mode.
Perché dopo aver provato
certe robe, il nuovo gestionale coi tracciati e i dadi colorati e la
nuova variazione della meccanica, o il nuovo cooperativo d’azione
con miniature e mostri da sconfiggere su setting differente, ma anche
il nuovo astratto con le pedine che si muovono in modi abbastanza
semplici sulla scacchiera, non bastano più.
Due chiarimenti: il primo
è un sonoro no all’usa e getta. Provare
tutto una volta ti rende uno che ha solo
assaggiato, non ha giocato come dice un caro
amico romanaccio. I giochi validi
(siano strategici gestionali o aleatori a campagna in cui scoprire
lore e crescita dei personaggi; siano anche astratti strategici di
tre regole) sono quelli che hanno un profondo
gameplay emergente. Ora non sto a fare
l’ermeneutica di che voglia dire profondo e gameplay emergente, ma
ci siamo capiti; è quando giochi e rigiochi e
ancora esce fuori roba. Con due partite e via
hai mangiato la glassa del pasticcino e l’hai lasciato sul vassoio,
per un’altra glassa colorata.
Il secondo punto
importante è di darsi un ritmo e una consapevolezza; armonizzare
sui propri tempi ricerca della novità e dell’approfondimento.
Perché se fate solo
approfondimento di un gioco vi perdete come cambia il mondo
(i giocatori impostati su Magic che non
capiscono che in Keyforge NON SEI OBBLIGATO a comprare e starci
dietro, o gli americanisti puristi che gridano al tradimento quando
Scythe non è un action e ha una guerra fredda “relativamente”
poco spinta a discapito della copertina che promette “un wargame”);
a rovescio se fate
solo novità non affinate la sensibilità a cogliere le sfumature,
equilibri tra fazioni, poteri variabili e gameplay emergenti dopo più
e più partite; tutto il metagioco dell’anticiparsi, azzopparsi,
andare in scia in sordina e poi superare al traguardo ecc.,
e per esempio potreste percepire un Azul Sintra come equivalente del
predecessore Azul quando invece quella sola azione di recupero può
aprire una dimensione completamente diversa di timing nel gioco e di
lettura degli altri giocatori. (NB non ho
giocato ancora i due Azul, ma prendo un esempio sentito di recente e
che magari è ben presente a tutti. Un analogo discorso di timing è
in 7 Wonders Duel - tra base in cui sei obbligato a prendere una
carta e così liberarne qualcun'altra – e Pantheon dove invocare
una divinità ti permette di invertire un tempo, “passando la
mano”. Troppo pieni i dibattiti sui giochi fortemente asimmetrici
di “quel personaggio è più forte” solo perché nelle prime
partite è più facile e lineare valorizzarlo.)
Coltivare in sé stessi
questa doppia sensibilità, orizzontale e verticale, è una missione
impossibile e un gioco di continua ricerca di equilibrio, ma è
quello che regala a noi stessi due occhi buoni con cui guardare le
cose, e magari arrivare pronti a questi titoli e queste idee che sono
un’opportunità per aprirci irreversibilmente la testa.
Fatta questa lettura
interpretativa, vi racconto alcuni esempi personali vissuti, che a
tutt’oggi mi impediscono di accontentarmi dell’ ennesimo
gestionale o cooperativo di miniature e mostri. Ovviamente queste
sono mie preferenze e titoli che io adoro potrebbero essere inadatti
a voi, ma quel che conta è il percorso che tali idee mi hanno fatto
fare.
Prima di iniziare coi
giochi in scatola giocavo skirmish 3d di miniature, classico filone
intriso di dadi. Scoprendo il genere eurogame e la pianificazione, la
gestione di carte, risorse e altri elementi, mi è stato impossibile
tornare ad accettare un “muovi, tira dado e
vedi se attacchi/difendi”. No grazie, gli anni ’80 sono finiti.
Ho grossomodo evitato i giochi skirmish a dadi (ah, li evito ancora
XD) perché cerco titoli non necessariamente
deterministici, ma in cui io sia artefice di una scelta – che poi
può andar bene o male. Preferisco fallire un
azione perché non arrivo a un numero bersaglio con le mie carte e
non ne pesco di abbastanza valide: almeno questo è
dipeso da come ho giocato le carte prima. Col
dado invece (per le mie emozioni e idee) sei solo seduto a vedere
cosa dice l’arbitro.
E non è un caso che per
me Mage Knight sia il
primo titolo di un filone che sto poi seguendo con estremo interesse
e soddisfazione, ossia quello di titoli avventurosi, anche
impegnativi per durata, in cui le azioni si fanno investendo a
propria discrezione le carte. Poi possono essere iper impegnativi
come Gloomhaven o
leggeri e scanzonati come Mech Vs Minion: non
ha importanza. Ho avuto in MK per la prima volta la sensazione di
essere inserito in un mondo e di avere tutti i
comandi, non solo il tasto muovi/spara. Se
conoscete questi giochi capite cosa intendo; gestire e leggere la
mappa, pianificare sequenze di carte, poter provare a arrivare in
quel punto attraverso strade e approcci totalmente diversi. Una volta
che mi fai guidare non ci salgo più sul trenino. Ed ecco anche la
mia passione sfrenata per 7th Continent,
titolo che ha pure dei difetti emergenti se
lo si gioca a lungo (diciamo che solo il primo scenario è bello
corposo, gli altri nella scatola base sono piuttosto pretestuosi –
finger cross con la wave 2) ma mi ha dato totale libertà di
movimento nel mondo e totale libertà di valutare l’azione.
Potresti riuscire al 95% delle azioni se spendi energie – ma poi
paghi il fatto di tirare avanti con quelle che ti rimangono.
Un discorso affine vale
per gli economici rispetto ai gestionali classici a stampo euro,
fossero anche stretti di risorse. Titoli come Container,
Ponzi Scheme, Imperial 2030, Railways of the World, Food Chain
Magnate, Indonesia e The Great Zimbabwe sono
stati titoli in cui non bastava mettere insieme carte/edifici/effetti
per avere un bravo motore produttivo (classico
livello gateway del gestionale). L’economia
c’è e cresce, ma cresce grazie a me, a te e a lui che abbiamo
fatto quelle azioni. Si riceve soldi perché si riesce a
pubblicizzare, trasportare o vendere, non perché abbiamo la rendita
a inizio turno (mi piacciono ancora anche i giochi euro, ma ora sono
gli economici a rappresentare per me un ulteriore orizzonte).
Una citazione che faccio
di sfuggita è Pax Renaissance,
titolo che devo praticamente ristudiare e
rispolpare come altri di Eklund. Non posso parlarne criticamente per
ora ma posso dire che mi ha folgorato nel suo riprodurre
le dinamiche della storia su larga scala senza
rendere il gioco un card driven pieno di istruzioni da seguire.
Certo, capire il gioco è un casino e un lavoro, magari fosse
spiegato in modo più approcciabile e lineare, ma di fondo è un
gioco che su tre quattro azioni ti fa intavolare i cambiamenti
ideologici, le opportunità commerciali, le annessioni, i
vassallaggi, i matrimoni d’interesse. Se padroneggiate il
regolamento il vostro turno è: pesco, monetine, muovo quello, sposto
questi, passo. La storia fatta con flusso di gioco snello, e non
imbottito di carte e testo. Stupendo.
Vengo infine a due esempi
che mi sono particolarmente cari. Leaving
Earth è un simulatore della ricerca
spaziale, in cui progettazione assolutamente matematica (si fanno
somme e moltiplicazioni) e esecuzione si combinano. Il “bias” del
gamer gestionale è che “se calcolo voglio controllo, e che quindi
sia raggiungibile”. Peccato che noi siamo una specie su un pianeta
tra n miliardi di pianeti nello spazio, mandiamo un nostro oggetto
tecnologico nello spazio e pretendiamo che “ci si incastrino le
tessere bonus per farci navigare di più alla Progetto Gaia?” In
Leaving Earth arrivi su Venere, hai giocato quindici round su venti
mettendo via soldi, contando, testando, acquistando per una sola
missione, arrivi in cima, tutto perfetto e BUMM. Pressioni
atmosferica schiacciante, spacecraft distrutto senza possibilità
d’appello. Frustrante, da giocatore. Ma ci ho riflettuto. “Cacchio,
e io sto GIOCANDO (più o meno; non consideratelo un gioco da tavolo
ma un simulatore/gioco, per capirci). Ma
quelli che ci lavoravano? Quelli che magari tornavano a casa e
dicevano che era esploso un veicolo al quindicesimo anno di lavori su
una spedizione? Ma come ti devi sentire?” Leaving
Earth mi ha fatto riflettere, per quanto io ami i gestionali, che un
conto è giocare a gestire e un conto è presumere
di poter sempre gestire. E’ l’universo,
bellezza, e rispetto a noi gioca con tutti i cheat.
Però noi possiamo
provare. Siamo umani nel provare, non per forza nel riuscire. Va bene
così, facciamo pace con questo e impariamo a gioire del provare, non
solo del vedere auto riuscire le cose.
E poi un altro
spartiacque, un titolo che segna per me il prima e il dopo. FOG
OF LOVE. Santo cielo: prima avevo visto
giochi col tema legato agli uomini, qui ho visto un
gioco umano. Fog of Love ha sbriciolato le
tipologie che ormai snocciolavo a memoria e mi ha insegnato a vedere
i campi deserti tra le strade. E’ un cooperativo? Sì se per
attributi ricevuti e scelte fatte in partita puntiamo a due destini
conciliabili e se ci aiutiamo a vicenda. Se i nostri destini finali
sono inconciliabili ed è tardi per virare diventa un competitivo
dove ci si azzoppa e si cerca di essere il vincitore a discapito
altrui. O ancora si punta a cambiare strada e farcela dal soccombere
con i destini di rottura. E’ un semi cooperativo con traditore? No,
perché tu non inizi sapendo che potrebbe esserci un traditore; tu
inizi senza sapere nulla che non sia state insieme. Poi vi
conoscerete, vedrete se avete sintonia e basi per la fiducia oppure
no. Ma fatto il setup non dite “bene, lui potrebbe non cooperare
quindi io”. Avete bisogno l’uno dell’altro/a, ma non è detto
né che andrà bene né che andrà bene a entrambi: state solo
provando.
Ed è così nella vita
di tutti i giorni. Fog of Love ha preso
qualcosa della vita vera che sta davanti ai nostri occhi ogni mattina
e l’ha messa per prima sul tavolo. Dopo aver giocato questo titolo,
i possibili esiti che offre, il classico cooperativo in cui mettere
insieme set di colori (per quanto divertente ed efficace in certi
casi) è semplicemente superato. E che dire
del coinvolgimento? Io sarò estremamente
sensibile al tema e mi emoziono anche adesso a scriverne, ma è una
sorta di rivoluzione. Come creare coinvolgimento e immedesimazione
tra i giocatori e il personaggio interpretato? Ci sono tante strade;
il levelup, la personalizzazione, il vedere gli esiti delle scelte in
corso della narrazione di gioco, customizzare sé stessi a inizio
gioco. Fog of Love ti fa vedere, piazzando tre segnalini, come ogni
scelta plasmi, delinei e modifichi il tuo carattere (altro messaggio
esplosivo che Jakob ha preso dalla vita reale e tradotto in meccanica
di gioco).
Ma poi l’apoteosi, lo
schiaffo (buono, umano, caldo) che ti dà questo titolo è proprio
all’inizio. Peschi la professione, scegli sesso e tratti – ma poi
le feature. “Tu Mi
Piaci Perché…” Scegli una feature del partner, gliela assegni e
gli racconti o descrivi in che modo questa cosa di lui/lei ti piace.
“Tu mi piaci perché”. Un filo di impaccio quando si inizia, o
quando non si è abituati ad aprirsi, ma poi umanità e commozione.
Se tu mi dici che “io ti piaccio per la mia voce calda e
rassicurante, da quando ci siamo incontrati alla bancarella al parco”
io MI SENTO quel personaggio in meno di un secondo, meno del tempo di
pescare una mano di carte. Io scegliendo tra le tue feature
VEDO IN ME quel personaggio che tu sei e rappresenti e so sentire e
capire cosa mi piace, e te lo dirò adesso – non chiuderò la
scatola portando con me una emozione e un ricordo che non ti ho
condiviso.
SENZA NEMMENO PIAZZARE UN
MATERIALE SUL TABELLONE. Questo titolo, anche assieme agli altri
elencati, mi ha fatto capire che non è che ormai si siano esplorate
le principali strade.
Si è
imposto un manierismo (giusto e naturale che
ci sia); ma in alcuni casi vale la pena di
fermarsi e ripensare
il game design: e tra l’altro game design significa progettare
esperienze, non meccaniche. In alcuni casi il gioco vorrà meccaniche
calcolative, ma in altri no. La meccanica deve
farci fare una esperienza significativa. Altrimenti
forse stiamo solo facendo i programmatori, gli illustratori/scultori
o i narratori di racconti e di lore. Anche qui non è dannoso in se,
ma è un’altra attività.
Commenti
Posta un commento