Cronachelli: AAA - La legge della conservazione della massa (esperienziale) di Anonima D


Di Anonima D
La stragrande maggioranza di noi Homo Ludus Ludicum Sapiens ha sperimentato almeno una volta in fase preadolescenziale il famoso gioco di “società”, che di socievole, almeno per quei 3 o 4 che mi sono capitati sottomano, non avevano nulla. Mi ricordo solo le tante legnate sulle gengive che riceveva chi provava a barare o fare a modo suo con le regole che ci eravamo inventati noi. Monopoli e UNO tra tutti ci ricordano che non serviva affatto leggere i regolamenti.
Questi ripetuti traumi, dovuti ai litigi e alle sberle ricevute, hanno fatto si che dalla mia prima adolescenza mi dedicassi esplicitamente solo al gioco d’azzardo compulsivo una volta all’anno: tombola e scopone scientifico. Periodo Natalizio in cui si sa, la Top 50 dei giochi più giocati di Board Game Geek (BGG per gli amici) esalta al massimo questi due capisaldi del mondo ludico.
Ad ogni modo gli impegni scolastici, sportivi e programmatici ai fini della mia indipendenza sociale, mi hanno distolto da quella che poteva essere considerata dai miei genitori una mera perdita di tempo. Mi piace pensare che quello che mi sono persa in questi anni sia proprio ciò che mi porta a scrivere tutto questo.



Alea iacta est.

Avevo, e ho tutt’ora, una forte attrazione per i dadi e quando scoprii che non esistevano solo i più comuni dadi a 6 facce, andai alla ricerca di un set di dadi per il gioco di ruolo. Quello fu il primo passo verso l’inizio di uno dei miei periodi più complessi e intriganti.
Cerco invano per giorni nella mia piccola città un posto dove comprare questi benedetti dadi. Alla fine lo trovo. L’immagine che mi si para davanti non è delle migliori, ma non mi dispero. Li vedo. Lì sul bancone. Tanti, belli, colorati. Compro subito il mio set.
Felicissima, e scontrino alla mano, faccio per andare via quando l’occhio mi cade su una coppia di ragazzi che giocava ad un tavolo. Carte, carte e ancora carte. E anche dadi! Sì ok, li usavano per tenere conto dei danni dei personaggi eccetera, ma è li che ho avuto un’intuizione.

Una genialata.

Volevo evitare discussioni in famiglia su quale sarebbe stata la giusta via da seguire per non farmi sovrastare dalle peccaminose distrazioni ludiche.
I giochi da tavolo classici erano contenuti di solito in enormi scatole difficili da nascondere agli occhi di un genitore, e per di più servivano generalmente almeno tre o più persone per giocare.
Mi sono detta “Ma sai che quasi quasi faccio un giro di prova nel mondo dell’illusionismo genitoriale?”
Era chiaro. Con tre semplici elementi (ossia dadi, carte e solo 2 giocatori) potevo soddisfare tante voglie tutte in un sol colpo.
“Ciao mamma vado a studiare da un’amica!” dicevo, e poi giù ore a giocare fino a tarda sera. Era fondamentalmente facile. L’avversario lo trovavo in negozio. Dadi e carte si nascondevano tranquillamente dentro lo zaino. Ero diventata un’illusionista.
Passano mesi, partite e tornei. La frenesia dei primi giorni svanisce e smetto di giocare. Analizzando adesso la situazione ad anni di distanza mi rendo conto di quale sia stata la causa. Semplicemente la routine e la monotonia. Era un gran bel gioco, sia chiaro, tutt’ora conservo parecchi esemplari di carte e i vari regolamenti, ma mancava la cosa fondamentale che ho trovato nei boardgame: la variabilità.



Cambia la forma e un po’ di sostanza.

Penso che giocare sempre e solo allo stesso gioco (almeno per i Game Designer) porti ad un intorpidimento cerebrale tale da rendere vano ogni sforzo creativo. Infatti uno dei mantra rimane sempre Giocare, giocare tanto, ovviamente a giochi diversi. Ogni occasione è buona per conoscere altri giochi anche se non fanno per noi dal punto di vista della macrotipologia. Ad esempio non amo particolarmente i cosiddetti “German” o “Eurogames”.  Semplicemente perché non sopporto l’idea di stare seduta ad un tavolo per ore, tentando di far partire un motore che se non viene calibrato sin dall’inizio con le giuste scelte finirà per non accendersi mai, eppure quella volta al mese che qualcuno mi propone uno di questi cinghiali d’oltralpe, lo gioco volentieri soprattutto a scopo didattico. Non mi “diverto” molto, è vero, ma torno a casa con qualche bagaglio esperienziale in più che male non fa.
C’è poi una pratica usata da alcuni aspiranti Game Designer, a scopo puramente didattico, che prevede la possibilità di “riconfigurare” e migliorare uno dei loro giochi preferiti. Sono quasi sicura che è quello che ha fatto il barbuto Alexis Allard con il suo SMALL ISLANDS.
Quasi tutte le recensioni relative a questo gioco lo paragonano al più blasonato CARCASSONNE, ma chiunque abbia giocato ad entrambi converrà con la sottoscritta che è molto più articolato e variabile nelle sue caratteristiche principali.
Si tratta pur sempre di piazzare tessere per creare delle aree differenziate, come in CARCASSONNE, ma la programmazione che il giocatore deve fare nel breve e nel lungo periodo, a mio modesto avviso, lo rende molto più intrigante e facilmente intavolabile nel tempo. Il nostro Alexis ha leggermente cambiato la forma e aggiunto un bel po’ di sostanza. Un esercizio ben riuscito insomma.


Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si trasforma.

“Sì, ma tutta ‘sta roba che hai scritto a che serve?” penserà qualcuno.
Oltre ad enunciare la Legge della conservazione della massa, riportata due righe più su, serve a descrivere a grandi linee quello che mi trovo oggi davanti agli occhi dopo molto tempo. Serve a ricordare a me stessa chi ero e cosa sono diventata.
Tra la prima riga di questo articolo e SMALL ISLANDS c’è un lasso temporale di circa 20 anni.
Anni in cui non ho creato e distrutto nulla, ma ho semplicemente trasformato voglie, attitudini, segreti, comportamenti, nozioni scientifiche, delusioni, lezioni di chitarra, acquisti, sensazioni e molto altro in pura esperienza.
Questa esperienza, in un modo o nell’altro, non solo si arricchisce delle nuove conoscenze, ma trova nuova linfa vitale trasformandosi giorno per giorno in quello che è oggi e che sarà domani.

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